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Ryoichi Kurokawa, Oscillating Continuum Sculpture, 2013
In un’intervista di Davide Dal Sasso per Artribune si parla del cambiamento delle attività dell’artista e del curatore e il rinnovamento dei paradigmi di produzione artistica.

Lo sviluppo tecnologico del secolo scorso e la produzione artistica contemporanea.

 

PARLA MARCO MANCUSO, A COMINCIARE DAL LEGAME TRA E ARTE E TECNOLOGIA.

 

Critico, curatore, docente ed editore indipendente, Marco Mancuso focalizza la sua ricerca sull’impatto delle tecnologie e della scienza sull’arte, il design e la cultura contemporanea. Fondatore e direttore della piattaforma online Digicult attiva dal 2005, del Digimag Journal e della casa editrice Digicult Editions, insegna presso NABA e IED a Milano, e all’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo. Muovendo dal suo libro Arte, tecnologia e scienza.

 

Le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea, recentemente pubblicato da Mimesis Edizioni, il dialogo affronta il rapporto tra arte e tecnologia, la natura ibrida della New Media Art, il cambiamento delle attività dell’artista e del curatore, le art industries e il rinnovamento dei paradigmi di produzione artistica.

 

Lo sviluppo tecnologico del secolo scorso ha determinato molti cambiamenti avvenuti in diversi ambiti della produzione artistica contemporanea. Se dovessi indicare alcune delle fasi novecentesche più importanti che hanno caratterizzato il rapporto tra arte e tecnologia, quali segnaleresti?

 

«Come affermo in uno dei capitoli del mio libro, la relazione tra arte e tecnologia è in verità un vero e proprio amore di lunga data. Fuor di metafora e tralasciando alcune singolarità della storia, dalle macchine di Leonardo da Vinci a Il Turco di Wolfgang von Kempelen, dalla “Gesamtkunstwerk” di Richard Wagner alle installazioni di László Moholy-Nagy e della scuola della Bauhaus, dai Clavilux di Thomas Wilfred alle rapsodie arte-scienza di Mary Ellen Bute fino al Futurismo in Italia, al Cubismo in Francia e al Costruttivismo in Russia, che si confrontavano con la questione della meccanizzazione non solo nell’industria, ma della vita in senso più ampio, sono gli Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso a segnare uno dei primi punti di svolta nel dialogo tra arte e tecnologia.

 

Un dialogo in grado di generare un flusso omogeneo di sperimentazioni, esperienze, collaborazioni ibride (anche con il mondo delle industrie) e opere.

 

Consideriamo un momento la sperimentazione sviluppatasi in rapporto alla diffusione dei computer. In generale, è pensiero comune tra tutti i principali critici che la nascita della prima Computer Art si possa far risalire a due momenti chiave: la serie di eventi Nine evenings theater and engineer, che nel 1966 lanciarono le attività del neonato EAT Experiments in Art and Technology e la mostra Cybernetic Serendipity a cura di Jasia Reichardt, tenutasi dal 1° agosto al 20 ottobre 1968 presso l’ICA Institute of Contemporary Art di Londra.

 

Per la natura dell’operazione, tornando alla ricapitolazione, penso sia inoltre importante ricordare l’opera condotta proprio dall’EAT per la realizzazione del Padiglione Pepsi per l’Esposizione Universale di Osaka del 1970, nonché le collaborazioni del suo co-fondatore Billy Klüver con artisti come Andy Warhol, Jasper Johns e Yvonne Rainer, così come la consulenza per la realizzazione della scultura cinetica Fragment from Homage to New York dello scultore svizzero Jean Tinguely.

 

Ma ancora, non si possono tralasciare le attività dell’Electronic Arts Intermix (EAI) fondato nel 1971 da Howard Wise a New York, così come l’esperienza del Palo Alto Research Center (PARC) creato dalla Xerox Corporation alla Stanford University nel 1970, ma anche il progetto AARON per l’arte robotica e l’Intelligenza Artificiale lanciato da Harold Cohen alla University of California San Diego nel 1974».

 

Quayola, Laocoon, 2015

Quayola, Laocoon, 2015

L’impatto della ricerca scientifica

 

Se guardiamo anche all’impatto della ricerca scientifica, che cosa includeresti in questo riassunto?

 

«La realizzazione del Satellite Arts Project di Kit Galloway e Sherrie Rabinowitz, primo progetto artistico prodotto dalla NASA nel 1977, la nascita del Massachusetts Institute of Technology Media Lab nel 1985 (nato da una costola dell’Architecture Machine Group di Nicholas Negroponte), la grandiosa esperienza della Olivetti in Italia. Aggiungerei anche la collaborazione tra l’artista Edward Ihnatowicz e la Philips Corporation per la realizzazione della scultura cibernetica The Senster nel 1971 – follow up del più noto progetto del Padiglione Philips, realizzato per l’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958 da Le Corbusier e Iannis Xenakis – per arrivare alla nascita del festival Ars Electronica nel 1979, del V2_Center for Unstable Media nel 1981 (il cui fondatore Alex Adrianseen è recentemente scomparso), dell’Institute for New Media (INM) e dello ZKM a cavallo tra fine Anni Ottanta e primi Anni Novanta del secolo scorso».

 

Difficilmente classificabile, per via dell’eterogeneo insieme di pratiche che la animano e della continua rigenerazione tecnologica che le caratterizza, la New Media Art può essere meglio compresa considerando in particolare la sua natura ibrida. Quali sono i tratti più significativi che concorrono alla definizione di quest’ultima?

 

«La New Media Art è stata sin da subito definita come un’entità produttiva ibrida, caratterizzata da una produzione artistica stratificata su vari ambiti disciplinari, spesso interconnessi, in accordo a un sempre più dilagante sviluppo tecnologico e scientifico.

 

Come scrivevano già molti anni fa Dieter Daniels e Rudolf Frieling sulla piattaforma Medien Kunst Net, la New Media Art poteva essere considerata già ai suoi albori come un movimento artistico che tendeva a contaminare le tecnologie mediali a sua disposizione nel solco di quella sperimentazione interdisciplinare condotta da artisti come Man Ray, Nam June Paik, Joan Jonas, Bill Viola, i Vasulka, Bruce Nauman, Stan Van Der Beek, solo per citarne alcuni».

 

Come affronti questa complessità nel quadro delle tue ricerche?

 

«Nel mio libro produco un grande sforzo nel delineare i confini di questo ambito di produzione artistica. Cerco di classificare le diverse esperienze disciplinari a cavallo tra arte, design, musica, performance, rete, software, audiovisivi, dati, interazione, architettura, realtà aumentata e più recentemente biotecnologie, Intelligenza Artificiale e machine learning; facendo ordine al di là di qualsiasi dubbio possibile.

 

Al contempo, e questo è ciò che produce complessità, agisco parallelamente nel rompere queste barriere, nel diluire questi confini, avanzando il mio punto di vista critico sulla necessità di raccontare la New Media Art al di là di qualsiasi definizione troppo stretta dettata in questi ultimi anni dai media, da alcuni critici, dalle istituzioni o dai mercati».

 

Da questo punto di vista, quale direzione teorica pensi sia percorribile?

 

«Se nel testo At the edge of art del 2006 di Jon Ippolito e Joline Blais si afferma che: “Alcuni degli sviluppi artistici più significativi degli ultimi anni si sono verificati fuori dal mondo dell’arte, coinvolgendo spesso figure che non vedevano, in primo luogo, se stesse come artisti, ma come ricercatori, scienziati e attivisti”, nel mio Arte, Tecnologia e Scienza parto da queste basi e provo ad andare oltre.

 

Descrivo realmente questo mondo nella sua totale e assoluta interdisciplinarietà e provo a capire chi sono i suoi protagonisti, quali i suoi campi di sperimentazione, le sue applicazioni nel mondo del mercato, le sue istituzioni di riferimento, i suoi principali appuntamenti e centri di ricerca, i suoi possibili sviluppi futuri».

 

Gli Anni Novanta del secolo scorso sono stati decisivi anche per un ulteriore cambiamento concernente i ruoli delle industrie creative e in quelle che tu chiami “Art Industries”. Che impatto ha avuto questo cambiamento sugli sviluppi della New Media Art contemporanea?

 

«Art Industries è un neologismo che ho appositamente coniato per descrivere quella condizione attuale di evoluzione del concetto di “Industrie Creative” – in auge dalla metà degli Anni Novanta a oggi – applicato all’impatto della tecnologia e delle scienze sull’arte contemporanea. Le “Art Industries” descrivono nuove filiere di produzione, contesti ibridi e interdisciplinari che permettono la comunicazione fra artisti, tecnologi, scienziati, intellettuali, istituzioni, musei e accademie.

 

Queste compenetrazioni hanno portato alla produzione di molte delle opere più interessanti nel panorama della New Media Art recente, garantendone un graduale processo di maturazione e un progressivo impatto sul contemporaneo, in uno scenario complesso e ancora poco mappato. Nel mio libro questo scenario viene descritto, teorizzato, analizzato e infine suffragato dalla voce di alcuni dei suoi protagonisti più noti: dal duo di artisti Semiconductor a Josè Luis de Vicente direttore del festival Sonar+D; da Simona Maschi, fondatrice e direttrice della scuola CIID – Copenaghen Institute of Interaction Design a Michael John Gorman della Science Gallery International fino a Joachim Sauter, artista e membro del gruppo di designer ART+COM».

 

Edwin van der Heide, Fog Sound Environment. Photo courtesy Studio Edwin van der Heide

Edwin van der Heide, Fog Sound Environment. Photo courtesy Studio Edwin van der Heide

 

 

Le Art Industries

 

Potresti tracciare un profilo ancora più netto delle “Art Industries”?

 

«Le “Art Industries” sono industrie artistiche e culturali che hanno la capacità di agire come catalizzatori di un preciso processo di produzione creativa. La loro capacità di networking e di modellazione di strutture di conoscenza peer-to-peer, le piattaforme open di condivisione di esperienze e strumenti, l’attitudine Do It Yourself all’autocostruzione di nuovi dispositivi, le conoscenze eterogenee che le caratterizzano e che nascono spesso da approcci autodidatti facilitano nuove modalità di relazione tra sperimentazione, creazione artistica e mercato».

 

In relazione a questo scenario, come cambiano il ruolo e le attività dell’artista?

 

«Non direi che il ruolo e le attività dell’artista stiano cambiando in relazione allo sviluppo delle tecnologie o in rapporto ai mondi della scienza. Si tratta di terreni di sperimentazione ed espressione che utilizzano strumenti e linguaggi specifici, come lo sono tutti gli altri: analogici, elettronici, digitali o scientifici, ognuno con le proprie problematiche e potenzialità nell’utilizzo del medium relativo. Sicuramente, gli artisti che sono descritti nel mio libro hanno formazioni ibride e hanno seguito percorsi di studi e ricerca totalmente inter-disciplinari».

 

Tenendo conto delle loro formazioni ibride e dei loro studi interdisciplinari, quale potrebbe essere il ritratto dei New Media Artists?

 

«Potremmo descriverli come artisti che, da un lato, non hanno fatto necessariamente studi accademici e, dall’altro, non si sono formati per forza da un punto di vista tecnologico o ingegneristico. Sono artisti in grado di dialogare con tipologie diverse di professionisti del mondo dell’arte più istituzionale ma anche della ricerca scientifica, dell’industria dell’ICT; così come con differenti tipologie di mercati in maniera quasi spontanea, prendendo spunto da ambiti disciplinari attigui come il suono, la grafica, l’animazione, la performance, la fotografia, il video, la stampa, il design in tutte le sue forme.

 

Non dico assolutamente che questa tipologia di artista sia solo e necessariamente il ritratto del New Media Artist: ciò che affermo nel mio libro è che l’artista non è più solo necessariamente colui o colei che esce dall’accademia, che si relaziona solo con le istituzioni dell’arte contemporanea, che fa riferimento solo ai suoi mercati che ne decretano il successo o la validità. Il ruolo dell’artista sta cambiando in funzione di come sta evolvendo il mondo attorno a noi: da un punto di vista sociale, economico, culturale e politico».

 

E per quanto riguarda il lavoro del curatore?

 

«Anche nel campo della New Media Art al curatore sono richieste competenze specifiche, conoscenza del contesto e dei media utilizzati dagli artisti, dei possibili problemi e potenzialità di uno spazio espositivo che deve essere allestito con tanta tecnologia o che deve amplificare fenomeni scientifici e utilizzare strumentazioni complesse.

 

Certo, la multimedialità dell’oggetto espositivo mette in questione il ruolo dei professionisti del mondo dell’arte e in particolare quello del curatore: per svolgere questo ruolo è necessario conoscere la complessità che ne deriva. La pratica di “cura” di un oggetto artistico di questo tipo è fortemente influenzata dalla necessità di confrontarsi con un universo di crescenti relazioni ibride con l’ulteriore difficoltà di esporre, presentare e interpretare opere d’arte a volte oggettuali, ma tante altre volte effimere o esperienziali, cercando di prevedere come il pubblico interagirà con esse in rapporto ai volumi degli ambienti e i dispositivi che li attraversano.

 

Oggi il curatore è sempre più una figura professionale eterogenea, un ricercatore che segue specifiche linee di indagine alle quali corrispondono le produzioni di determinati artisti o designer, che è in grado di aprire ponti di dialogo con istituzioni e professionisti dai più disparati ambiti disciplinari da un lato, ma anche con spazi espositivi, laboratori di ricerca, contesti scientifici e ovviamente industrie dall’altro».

 

Tenendo conto degli sviluppi tecnologici più recenti, quali potrebbero essere i prossimi cambiamenti in ambito artistico?

 

«Nell’ultima parte del mio libro mi sono divertito a preconizzare come i linguaggi espressivi dell’arte contemporanea potranno svilupparsi nei prossimi anni, sulla base di uno sviluppo tecnologico e scientifico “possibile”, basato cioè sull’implementazione di tecnologie che esistono già oggi.

 

Intelligenza Artificiale, machine learning, robotica, nano e biotecnologie, studi sui materiali mimetici e sviluppi della stampa 3D, reti neurali e immersione sensoriale, realtà aumentata e realtà virtuale: sono tutti ambiti di ricerca tecno-scientifica che avranno un crescente impatto sulla società e sull’uomo e quindi saranno sicuramente oggetto di studio degli artisti ancora di più di quello che sono già oggi. Al contempo, dopo questa prima fase di sperimentazione e produzione nel campo della New Media Art, maggiormente focalizzata sulla realizzazione di oggetti, opere, ambienti e performance, osserveremo un crescente interesse da parte degli artisti e dei designer a sperimentare l’integrazione reale tra tecnologia, scienza e corpo».

 

In rapporto a questa integrazione, cosa cambierà e che orizzonti potrebbero delinearsi?

 

«Si cercherà di colmare la distanza ancora esistente tra la biologia (esterna e interna) del corpo e l’ambiente circostante, parallelamente a un graduale sviluppo a livello di strutture hardware, macro-sistemi software e reti di dati e informazioni sempre più ampie e diffuse.

 

Magari sono solo sensazioni, ma alcuni artisti come la giapponese Sputniko! o la coppia Neil Harbisson e Moon Ribas, così come la designer Anouk Wipprecht o il video artista Keiichi Matsuda, solo per citarne alcuni, stanno già lavorando in questa direzione e speculano sulla nascita di nuova specie di ”uomo”: tecnologicamente attivato, in stretto rapporto con il contesto che lo circonda, capace di interagire e integrarsi con network sempre più ampi, dotato di una mente espansa e in grado di percepire il mondo al di là dei propri sensi, capace altresì di ampliare le proprie capacità corporee e l’hardware biologico al punto da ri-progettare la propria struttura in un dialogo sempre più stretto con macchine e forme di Intelligenza Artificiale.

 

Ecco, questa, a mio avviso, sarà un’ulteriore rivoluzione per il mondo dell’arte. E le condizioni per alimentarla ci sono già: ci sono i centri di ricerca come l’Ars Electronica Futurelab, i premi come lo STARTS Prize, le istituzioni come la Transpecies Society, i fenomeni underground come la Grindhouse Wetware, le super industrie come la Boston Dynamics. È solo questione di tempo».

 

 

Davide Dal Sasso